Posts Tagged: longevità

La nuova sfida

Non solo vivere più a lungo, ma vivere bene gli anni aggiuntivi che la vita e il progresso ci stanno offrendo: questa é ormai la sfida che abbiamo davanti.

Nel giro di pochissimo tempo si è diffusa, sui media, tra i politici, nelle aziende e soprattutto tra la gente comune, la consapevolezza della rivoluzione demografica che ha coinvolto le nostre generazioni, rivoluzione ancora in pieno svolgimento. E in Paesi ad elevata longevità come l’Italia, la sorpresa di vivere anche oltre gli ottant’anni si è velocemente trasformata nell’ambizione di vivere con pienezza i decenni di “vita in più” che a molti vengono regalati.

Dietro a questa ambizione c’è il desiderio di sfruttare al meglio questa opportunità ignota a tutte le generazioni precedenti, ma c’é insieme la paura che gli anni della nuova vecchiaia siano lunghi e orribili, gravati da malattie neurodegenerative, da solitudine e da povertà di ritorno (su quest’ultimo aspetto basterebbero i dati riportati negli ultimi giorni dal Sole24ore per essere preoccupati). Solo con queste paure si spiegano le tante affermazioni un po’ angosciate di cinquantenni, sessantenni e settantenni che, di fronte alla fragilità e alla disabilità di tanti ottantenni, novantenni e magari centenari, si chiedono: “ma vale la pena di vivere così a lungo ?”, “ma è ancora vita ?”, “ma siamo di fronte a un progresso o a un peggioramento della condizione umana ?”

Certo che ne varrà la pena… se avremo la capacità di creare le condizioni per esistenze dignitose e dotate di senso, non gravate da malattie lunghe ed umilianti; ne varrà la pena se le prossime conquiste mediche terranno lo stesso passo (non troppo avanti, né troppo indietro) rispetto alle condizioni sociali ed esistenziali.

Riusciremo ad ottenere un tal risultato, così alto ed ambizioso ? E come ? Difficile rispondere, l’invecchiamento della popolazione è un fenomeno mondiale e le risposte della scienza e dei costumi saranno le più svariate, incrociando culture diverse.

Vi sono proposte e progetti di rilievo che dovrebbero dare una spinta importante in questo senso. Come ad esempio il progetto di innovazione chiamato “Human Technopole Milano 2040”, di recente proposto in sede dopo-Expo e che punta ad aggregare scienziati e competenze delle più svariate discipline con l’obiettivo di trovare le migliori tecnologie per contribuire, tra l’altro, alla qualità della vita e al benessere nell’invecchiamento.

O come la proposta di un paio di anni fa di Fontana, Atella e altri illustri scienziati italiani che auspicavano nascesse dalle scienze della longevità un secondo Rinascimento.

Il mondo scientifico e dell’innovazione speriamo faccia la sua parte, ma sicuramente di almeno pari importanza sarà una trasformazione più sottile eppure dall’enorme impatto, e cioé la diffusione di stili di vita che potranno favorire un “invecchiamento a misura d’uomo” (e non un invecchiamento disumano); stili di vita che riguardano tantissime sfere dell’esistenza, dalle abitudini alimentari, alla cura del proprio corpo, della propria mente, della propria rete sociale e, non ultima, delle proprie finanze.

Questo articolo é stato pubblicato anche su Osservatorio Senior

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Luci e ombre

I numeri che riguardano i senior devono essere aggiornati in continuazione. Chi si ritrova spesso a presentarli in pubblico sa che bisogna controllarli prima di ogni occasione. Noi senior siamo ormai studiati e monitorati con grande attenzione e infatti quasi settimanalmente esce qualche nuovo dato che ci riguarda.

Proviamo allora a fare il punto, che è fatto di luci ed ombre.

Intanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha accreditato di recente noi Italiani di un’aspettativa di vita di 80 anni per gli uomini e di 85 per le donne e di una aspettativa di vita in buona salute salita mediamente fino a 73 anni. Numeri che ormai non sorprendono più, ma è significativo che anche istituzioni importanti lo certifichino: siamo più longevi e riusciamo a stare in buona salute più a lungo che in passato. E il trend non accenna a modificarsi.  Inoltre, un numero sempre maggiore di senior fa controlli preventivi sulla propria salute e naturalmente la maggiore prevenzione va a favore di un maggior benessere complessivo: è quanto emerge dall’indagine sui “nuovi senior” descritta da Isabella Cecchini su Osservatorio Senior.

Più in generale, i costumi e gli stili di vita dei senior stanno cambiando in modo prepotente: ci teniamo ad essere in forma fisica, in forma mentale e “in forma sociale”.

Che la forma fisica interessi un numero crescente di senior lo testimoniano i dati sulla frequenza a palestre e a corsi di fitness, così come il successo dei tanti trattamenti, cosmetici e non, che ritardano l’invecchiamento; senza contare l’avvento di una pubblicità commerciale che rappresenta sessantenni e settantenni in aspetto smagliante.

La “mente in forma” è un altro must ben presente oggi ad ogni senior: un po’ che gli over55 sono molto più scolarizzati che in passato; un po’ per via degli interessi culturali coltivati per tutta la vita e l’abitudine a lavori spesso a contenuto intellettuale; un po’ per la paura delle malattie di decadimento cognitivo; fatto sta che il senior di oggi si prende molto cura della propria mente e non smette di essere curioso e di imparare: basterebbe il dato sulla diffusione delle università della terza età e delle migliaia di corsi e attività culturali offerti ai senior per dimostrarlo.

A noi senior di oggi poi è stato spiegato che nell’invecchiamento è importante anche la socialità e tendiamo a non farci mancare nulla neppure sotto questo profilo: tenersi in “forma sociale” significa continuare a coltivare le relazioni con gli altri e in Italia questo spesso si traduce da una parte nella crescita dell’associazionismo e del volontariato senior, dall’altra nel dedicare tempo ed energie all’aiuto familiare. E’ attraverso queste modalità che prevalentemente ci si mantiene vivi anche come “animali sociali”.

I dati più recenti ci raccontano anche di un mondo senior che sta sempre di più al lavoro: sarà per la legge sull’età pensionabile, sarà per il cambiamento di abitudini di vita, sarà per la necessità dei sessantenni di mantenere un reddito da lavoro e per alcune imprese l’opportunità di mantenere al lavoro competenze utili, sta di fatto che gli occupati tra i 55 e i 64 anni sono aumentati e il tasso di inattività per questa fascia di età è andato sotto il 50%, dal 62% di quattro anni fa.

E chi si occupa di patrimoni cosa ci racconta? Su questo fronte, fondamentalmente si registra una continuità: i senior di oggi rimangono le generazioni con il portafogli più rifornito, anche se sta aumentando l’ansia sulla possibilità di mantenere nel tempo lo stesso tenore di vita.

Le luci, insomma, sono tante: noi senior viviamo più a lungo e in buona salute, facciamo più prevenzione e otteniamo maggior benessere, ci teniamo in forma fisica, mentale e sociale; inoltre siamo le generazioni che meno soffrono i problemi della disoccupazione e della crisi economica.

Tutto bene dunque? Naturalmente no. Tutta una serie di aspetti sono problematici e direi collegati alla nuova condizione psicologica e sociale dei senior.

Ad esempio sono numerosi i casi di solitudine, psicologica e non, di sessantenni e settantenni, solitudine che spesso si affianca alla fatica nel comprendere il passaggio di età e la transizione da una fase della vita ad un’altra. E’, questa, una fatica che non raramente sfocia anche in depressione.

Inoltre, le graduatorie internazionali, come il Global Age Watching Index sulla qualità della vita, relegano noi Italiani senior nelle posizioni medie della classifica e, andando su aspetti specifici, in posizione infima quando ci viene chiesta la nostra percezione di libertà su cosa fare del futuro.

A questi disagi e a queste insoddisfazioni spesso si aggiunge la fatica nel trovare occupazioni quotidiane che interessino e soprattutto a dare un senso al lungo futuro che ci attende. Problema, quest’ultimo, più frequente tra chi era molto impegnato sul lavoro e con responsabilità.

Ma l’ombra che sovrasta le altre riguarda la nebulosa che avvolge i rapporti con le generazioni più giovani e che si nutre di contraddizioni fortissime: su questo le generazioni senior appaiono in bilico tra generosità (talvolta persino eccessiva) quando si parla di rapporto privato e familiare nei confronti dei figli, ma che si trasforma spesso in difesa dei propri privilegi quando ci si sposta sul piano pubblico.

Un mondo, quello dei senior, caratterizzato dunque da molte luci, in primis la consapevolezza delle molte opportunità, ma anche da alcune ombre che richiedono attenzione.

Questo articolo é pubblicato anche su Osservatorio Senior

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Senior nel mirino della aziende

A New York nel 2015 aprirà i battenti il primo Longevity Center, seguito da altri nove che vedranno la luce in tutto il mondo, tra cui Hong Kong e San Paolo nel Brasile. Si tratta di un’iniziativa del dipartimento del colosso Nestlè che si occupa della salute della pelle.

Il Longevity Center sarà una sorta di “centro benessere per la longevità” il cui nemico dichiarato sarà l’eccessiva secchezza e la perdita d’elasticità della pelle da cui è difficile sfuggire dopo i 60 anni. D’altra parte, l’iniziativa non é isolata: già da qualche anno L’Oréal propone come ambasciatrice dei propri prodotti di cosmetica il mito Jane Fonda, non esattamente una giovincella ma sempre affascinante icona nell’immaginario di ogni 60-70enne.

Cambiando settore, le aziende farmaceutiche stanno affilando le armi da tempo e prevedono un incremento forte delle vendite di tutti farmaci che contrastano le malattie tipiche dei senior. Se poi si ascolta cosa dicono alla Borsa del Turismo della Terza Età, lì non hanno dubbi sul fatto che il segmento di mercato maggiormente in crescita sia quello dei senior, così le offerte progettate per questo target cominciano ad abbondare, dalle evergreen excursions alle crociere fuori stagione. E anche la moda terza età comincia ad avere la sua importanza e il suo spazio.

Capita anche di incrociare pubblicità di tablet pensati apposta “per persone anziane, con un interfaccia semplificata ed icone di dimensioni molto più grandi rispetto allo standard”, perché ormai anche gli over 60 si sono digitalizzati. Continuando con gli esempi, Heineken, non paga di catturare i bevitori di birra più giovani, ha lanciato in rete qualche tempo fa 60+Challenge, una richiesta alle persone di questa fascia di età di fornire idee per il lancio di una birra dedicata alle loro generazioni.

Se poi sto alle mie esperienze personali, mi è capitato di essere consultato da aziende dei settori più svariati, dai superalcoolici, ai probiotici, agli occhiali, che mi ponevano la domanda: quali sono le esigenze dei senior a cui dobbiamo essere sensibili se vogliamo proporre i nostri prodotti anche a questa fascia di mercato ?

Non c’è da stupirsi che i senior siano nel mirino delle aziende. Bastano pochi dati per capire come mai moltissime di loro stanno orientando le strategie verso il mondo senior. La società, in tutto il mondo, invecchia: un miliardo di persone oltre i 60 anni nel 2020 e, solo in Italia, nel 2030 due persone su cinque saranno over65, in pratica stiamo parlando della fetta di mercato più grande, ma anche di quella più succosa, dato che il portafoglio dei senior è di solito meglio rifornito di quello dei giovani.

L’attenzione delle aziende non si limita però soltanto al guardare il mondo senior come un mercato. Sta crescendo l’interesse anche per ragioni interne al funzionamento delle organizzazioni: il pensionamento dei dipendenti arriva sempre più tardi e gli “scivoli” dei tardo-cinquantenni verso l’uscita anticipata dal lavoro, che sono stati diffusissimi negli scorsi vent’anni, oggi sono un po’ meno convenienti e meno facili. Con un’espressione anglofila si va facendo strada nelle aziende la tematica del cosiddetto “age management”, che significa poi riconoscere anche dentro le mura delle organizzazioni la rivoluzione demografica in corso e imparare a gestire i sessantenni, tenendo conto  della loro esperienza, dei loro limiti e delle loro motivazioni.

Insomma: senior come grande mercato e contemporaneamente come risorse da gestire con una particolare attenzione. Il mondo delle aziende sta riconoscendo forse con un certo ritardo le opportunità e i cambiamenti legati all’invecchiamento della società, ma ormai il treno è in corsa e di questa nuova attenzione ce ne accorgeremo in modo massiccio nel prossimo futuro, da quel che troveremo nei negozi, alla pubblicità che vedremo in televisione, fino al modo in cui verrà trattato chi da sessantenne continuerà a lavorare in un’organizzazione.

In foto: donna over55 alle prese con lo shopping

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Ancora giovani per essere vecchi

Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di moderare un incontro, organizzato dall’Associazione Nestore, con Carlo Vergani, notissimo medico geriatra, e con Giangiacomo Schiavi, scrittore e vicedirettore del Corriere della Sera, in cui si dibatteva il tema dell’invecchiamento prendendo spunto dal loro recentissimo libro “Ancora giovani per essere vecchi” (distribuito qualche settimana fa nelle edicole insieme al Corriere).

cover“Ancora giovani per essere vecchi” è un agile libro-intervista (ma forse sarebbe più appropriato definirlo un libro-dialogo fra i due autori), che ho molto apprezzato. Oltre ad offrire pagine di gradevole lettura, cosa che non fa mai male, lo snello volume riesce a proporre un panorama molto ampio delle problematiche dell’invecchiamento, coniugando precisione informativa e competenza specifica con un taglio divulgativo. L’approccio è multidisciplinare: i problemi vengono visti non solo sul piano fisico, medico, biologico, ma anche su quello demografico, sociologico e politico, e questo arricchisce. In più si capisce ad ogni pagina che il punto di vista è espresso sì da esperti, ma non distaccati, al contrario da esperti che partecipano intensamente a quanto vanno raccontando.

“Vivere a lungo, vivere bene” è il titolo di uno dei capitoli e, direi, il cuore del messaggio del libro. La massima di Seneca riportata nel libro: “quello che conta è come si vive, non quanto” è facilmente condivisibile, ma subito si porta appresso una serie di interrogativi: come si fa a cogliere appieno l’opportunità di una maggiore longevità che ormai è nei fatti ? quali sono i “segreti” per realizzare l’obiettivo della longevità coniugata con una vita di qualità ? ci sono le condizioni oggi in Italia perché questa aspirazione possa essere realizzata ?

La risposta a queste domande ha naturalmente molte sfaccettature e il dibattito dell’altro giorno è stato ricco di spunti. Ad esempio, è stato detto che conta tantissimo la salute percepita: la qualità della vita, soprattutto durante l’invecchiamento, è spesso più legata al proprio disagio interiore che alle condizioni oggettive; non che acciacchi e malattie non abbiano il loro peso ma innanzitutto conta come ci si sente dentro nel vivere il processo di invecchiamento. O ancora: bisogna uscire dal paradigma finora dominante del vecchio inutile e non più attivo, la longevità va resa attiva, ad esempio attraverso l’esercizio della cosiddetta “cittadinanza attiva”. E per quanto riguarda le condizioni del sistema sanitario, è auspicabile una nuova medicina, una medicina che si occupi delle situazioni croniche e non solo degli stati acuti delle malattie, così come un sistema assistenziale e medico che raggiunga gli anziani fragili nelle loro case e che non sia concentrato solo negli ospedali.

“Vivere a lungo, vivere bene” è un messaggio che per paradosso porta anche a pensare al fine vita. Che fare se si vive a lungo, ma “male”, magari perdendo anche la propria dignità ? E qui, di fronte ad uno dei temi a cui la nostra coscienza oggi è più sensibile, alla domanda posta da Schiavi nel libro: “E’ favorevole all’eutanasia attiva ?”, la risposta di Vergani è precisa: “No, lasciar morire non significa far morire.”

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I tuoi anni migliori devono ancora venire

Le risorse del nostro cervello, anche invecchiando, sono sorprendenti e talvolta, anche se danneggiato, il cervello può continuare a lavorare efficacemente. Ce lo racconta in questo articolo Patrizia Belleri, che commenta il libro di Barbara Strauch e ricorda la ricerca sulle suore dell’Ordine School Sisters of Notre Dame.

Scrive Patrizia Belleri: La giornalista scientifica Barbara Strauch, giunta alla soglia dei 57 anni, inizia a preoccuparsi per i fenomeni sempre più frequenti che la infastidiscono nel suo quotidiano: il nome di una persona conosciuta che sfugge, le distrazioni nel corso di un ragionamento, la dimenticanza di gesti abituali.

Nel cercare spiegazioni, e forse anche conforto, interroga scienziati e passa in rassegna le ricerche più recenti. Nasce così I tuoi anni migliori devono ancora venire. Le sorprendenti risorse del cervello di mezza età, edito da Mondadori, un libro ricco di risultati di ricerche ed esempi tratti dalla vita delle persone, scritto con linguaggio chiaro e accessibile, senza mai perdere di vista la correttezza scientifica.

La Strauch scopre che la scienza interpreta in modo nuovo fenomeni conosciuti: ad esempio, le cellule cerebrali iniziano sì a morire già in età giovanile e non vengono più rimpiazzate, ma tante ricerche  dimostrano come il cervello sia in grado di organizzarsi per far fronte ai processi degenerativi, affinando altre capacità e modalità adattive originali. Se da un lato è più frequente dimenticare il nome del vicino incontrato fuori casa, nella mezza età migliorano doti quali l’ottimismo, la capacità di far fronte alle situazioni nuove, e aumenta inoltre l’abilità di attingere alle esperienze passate al fine di elaborare  strategie per risolvere problemi attuali.

Affascinanti  le teorie sulla “riserva cerebrale” e la “riserva cognitiva”, dei veri e propri  depositi cui il cervello attingerebbe nell’età matura: gli stili di vita sani e la vivacità intellettuale ne costituiscono le basi.

La riserva cognitiva,fatta di cultura, ma anche di atteggiamento positivo nei confronti della vita, spiegherebbe un fenomeno tanto impressionante quanto incoraggiante: il cervello maturo può lavorare efficacemente anche se danneggiato.

La Strauch ci racconta a questo proposito la storia delle suore dell’Ordine School Sisters of Notre Dame, osservate da David Snowdon, insieme ad altri ricercatori del Kentucky, in un  lungo  e appassionante studio longitudinale.

La ricerca, nota con il nome di “Nun Study“ è iniziata nel 1986  ed è durata 25 anni.  Ha coinvolto 678 suore di età compresa tra i 60 e i 95 anni. L’intento era studiare i fattori predittivi della malattia di Alzheimer in età matura e quelli che fanno vivere più a lungo e favoriscono la buona qualità della vita negli ultimi anni.

Questa ricerca è singolare per diverse ragioni.  Innanzi tutto, la lunghezza del periodo esaminato, dagli anni 30, quando le suore avevano circa vent’anni, fino alla loro vecchiaia. Infatti,  i ricercatori hanno potuto accedere alle autobiografie che le religiose avevano scritto negli anni del noviziato circa sessant’anni prima, conservate negli archivi del Convento. Altro elemento interessante è il fatto che le suore appartenevano a un Ordine che privilegia  lo studio, la cultura, la vivacità intellettuale.

Inoltre, la peculiarità del campione: trattandosi di religiose, è stato possibile eliminare variabili legate a  stili di vita dannosi quali alcol o fumo, che avrebbero creato delle interferenze indesiderate nell’interpretazione dei risultati.

L’ultimo e forse più interessante fattore è che tutte le suore avevano preso l’impegno  di donare il proprio cervello ai fini della ricerca, se la loro morte fosse avvenuta nel corso dell’esperimento.

Per ciascuna religiosa è stato compilato un dossier  ricco e dettagliato, a partire dai contenuti delle autobiografie degli anni giovanili. Periodicamente,   venivano somministrati test cognitivi il cui scopo era valutare la memoria, l’intelligenza e il grado di conservazione dell’autonomia personale con l’avanzare degli anni.

Dall’analisi delle autobiografie giovanili e dalle risposte ai controlli periodici veniva  esaminato anche  lo stato di benessere psicologico. In altre parole, si cercava di capire se le suore fossero   appagate della propria vita e si auto percepissero serene o felici.

I risultati   hanno ispirato diverse pubblicazioni, tra queste Aging with Grace, dello stesso Snowdon e numerosi articoli scientifici.  Tra gli altri, è emerso che la cultura e la vivacità intellettuale predispongono a una miglior qualità della vita in vecchiaia e che la presenza di ictus  e traumi cranici nel corso della vita sono elementi predittivi della malattia di Alzheimer in età avanzata.

Ma ciò che ha impressionato i ricercatori è la vicenda di una suora cui è stato dato il nome di Bernardette. La religiosa era tra le più intelligenti e colte tra le consorelle,  si era laureata in pedagogia, aveva insegnato per molti anni e la sua vivacità intellettuale non era mai venuta meno, tanto da risultare tra le migliori nelle risposte ai test cognitivi cui fu sottoposta periodicamente fino alla fine dei suoi giorni.

Morì d’infarto a 85 anni e, come previsto, il suo cervello fu sottoposto ad analisi autoptica. Con grande meraviglia, i ricercatori scoprirono che l’encefalo presentava segni evidenti di una gravissima forma di Alzheimer allo stadio più avanzato: a giudicare dalle condizioni del cervello, la suora avrebbe dovuto presentare una demenza grave.

Il caso non rimase isolato, la stessa Strauch ci racconta anche la vicenda di un personaggio noto nella letteratura scientifica come lo Scacchista: insegnante in pensione londinese, era un formidabile giocatore di scacchi, in grado di calcolare sette mosse in anticipo. Ad un certo punto incominciò a preoccuparsi perché si accorse di poterne calcolare solo quattro, pur continuando ad avere una vita molto attiva  e intellettualmente vivace. Si sottopose a numerosi accertamenti e fu sempre rassicurato sulle condizioni del suo cervello. Alla sua morte, anche il suo encefalo presentava gravi lesioni tipiche della malattia di Alzheimer.

Tante teorie affascinanti, dunque, che mostrano modalità nuove di studiare e di vivere la seconda metà della vita, si snodano nella scrittura piana ed efficace di Barbara Strauch, in questo bel libro decisamente da consigliare.

In foto: la copertina del libro di Barbara Strauch “I tuoi anni migliori devono ancora venire. Le sorprendenti risorse del cervello di mezza età”, edito da Mondadori.

 

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Premio “Vivere meglio e più a lungo”

Cari amici de I ragazzi di sessant’anni, cosa ne dite di partecipare insieme al progetto “Vivere meglio e più a lungo” ?

Di che si tratta ? Si tratta di un premio che Axa Italia e Swiss Re Foundation, insieme a Impact Hub Milano, hanno lanciato per startup che rispondano alle sfide poste dall’incremento delle aspettative di vita e dall’invecchiamento demografico.   Il nome dell’iniziativa è “Impact Hub Fellowship for Longer Lives” (non spaventatevi per il nome, le istruzioni si leggono tutte in italiano, il concetto è proprio quello dell’avere idee per soluzioni che consentano di vivere meglio e più a lungo) ed è per l’appunto un programma internazionale di incubazione per startup, che possono essere formate sia da giovani, sia da senior http://milan.impacthub.net/fellowship_longer_lives/

Quali i campi a cui si potrebbero dedicare le nuove imprese (start up) che partecipano al premio ? In generale, prodotti e servizi capaci di produrre cambiamento nelle pratiche o nei comportamenti dei senior in almeno uno dei seguenti ambiti: l’organizzazione della vita familiare, l’educazione, la vita economica e di lavoro, i servizi pubblici.

Come ad esempio ha fatto una start up inglese, che si è inventata un servizio locale per gli over 50, co-disegnato insieme agli utenti: i membri della community hanno accesso a persone dello stesso quartiere che possono aiutare nelle commissioni, a attività ricreative di gruppo e a una linea telefonica dedicata per consigli e informazioni di qualunque genere.

O come è stato il caso di www.sielbleu.ie, un’organizzazione no profit che ha realizzato programmi flessibili di attività fisica preventiva per migliorare e mantenere la salute delle persone senior e combattere problemi come la dipendenza e l’isolamento: questo progetto è presente in Francia e in Irlanda e ha vinto lo European Social Innovation nel 2010.

La condivisione di saperi e di esperienze tra generazioni, così come nuovi servizi per la famiglia e progetti nel campo del turismo e dell’offerta culturale, sono tra i temi di cui si é più parlato al workshop che Impact Hub Milano ha appena tenuto per prepararsi a partecipare al premio.

Chi vuole può presentare le proprie idee e la propria proposta entro il 4 gennaio. A quel punto, Impact Hub Milano, insieme ad AXA Italia e Swiss Re Foundation, valuteranno le idee migliori e più innovative, che meglio rispondano alle sfide poste dall’incremento delle aspettative di vita e dall’invecchiamento demografico.

Per chi si sente ancora desideroso di cimentarsi in una start up, o ha un figlio o nipote che voglia provarci, può essere un’opportunità.  Anche come www.iragazzidisessantanni.it potremmo partecipare. Che ne dite ? Attendo i vostri commenti e le vostre idee. Enrico

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Più istruito e più ricco? Più longevo

Anche oggi, benché tutti sappiamo che il titolo di studio é sempre meno garanzia di occupazione, vale la regola che chi ha studiato di più ha più probabilità di fare nella vita lavori che danno soddisfazioni economiche. Magari oggi in Italia, nel pieno della crisi dell’occupazione giovanile, questo collegamento è meno evidente, ma tutto sommato la massima “more learn, more earn” (“più impari, più guadagni”), anche secondo tutti gli studi sull’argomento risulta tuttora valida.

Quel che è meno conosciuto è il collegamento tra il livello di istruzione e la speranza di vita: secondo alcune indagini ci sono ben 6 anni di differenza tra l’aspettativa di vita di chi ha la laurea e di chi nessuna istruzione, sei anni a favore dei più istruiti. Intendiamoci, il signor Mario, 89 anni, papà di un mio amico, ex operaio che di sicuro di anni a scuola ne ha trascorsi pochi, ha ancora una salute invidiabile, a casa se la cava decentemente e quasi tutti i giorni va a farsi la sua breve passeggiata. Casi così ce n’è parecchi per fortuna, ma i grandi numeri parrebbero andare in una direzione opposta.  Che le diseguaglianze nell’aspettativa di vita siano dunque più legate al livello di istruzione che al genere ? (Tra uomini e donne, si sa, ci sono circa 5 anni di differenza a favore delle donne).

Anche se in realtà il rapporto tra livello di istruzione e longevità è meno studiato delle differenze legate al genere, non mancano seri rapporti che confermano queste diseguaglianze, con riferimento non solo all’Italia.  Ad esempio, uno studio della Banca d’Italia del 2012 dal titolo “Le diseguaglianze nelle speranze di vita”, al capitolo “Il ruolo dell’istruzione”, segnala che vi sono “con chiarezza divari anche significativi nella longevità tra i più e i meno istruiti e una tendenza al loro ulteriore ampliamento in atto almeno dagli anni 80”.

E un rapporto della Commissione Europea dello scorso settembre sulle disparità sanitarie rileva che “nel 2010 il gap stimato della speranza di vita per gli uomini all’età di 30 anni tra quelli con grado di istruzione più elevato e quelli scarsamente scolarizzati andava da circa 3 anni a ben 17 anni in diversi Stati membri. Per le donne il differenziale era leggermente più contenuto e variava da 1 a 9 anni”. Insomma, nella avanzatissima Europa ci sarebbero Paesi dove se hai studiato tanto vivi 17 anni più di chi non ha studiato !

Che poi l’istruzione di per sé non spieghi queste differenze, questo è evidente a tutti, ma gli esperti di sanità e di demografia non sono completamente d’accordo sulle spiegazioni. La più convincente, a mio vedere, è che il livello d’istruzione, come dicevo all’inizio, è collegato al livello di reddito e al tipo di professione svolta, e questo porta con sé una minore usura fisica, migliori cure nel momento del bisogno e la possibilità di vivere in luoghi più salubri. Non vanno trascurati però altri fattori, segnalati da molti esperti di sanità pubblica, come la quantità di fumo, il consumo eccessivo di alcool o la scarsa attività fisica, che talune ricerche rilevano essere molto diversi tra persone con alta o bassissima istruzione.

Qualunque sia la spiegazione giusta, resta il fatto che ad oggi vale la regola: più sei istruito, più guadagni, più a lungo vivi.

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L’invecchiamento lento

“Sto invecchiando”, sento dire spesso, e chi lo dice di solito fa riferimento a trasformazioni del proprio corpo, a qualche lentezza nelle reazioni mentali, a qualche differenza nel ruolo sociale o familiare che ricopre.  Secondo un interessante studio di Diego Vezzuto apparso sulla rivista Neodemos (la rivista on line dei demografi italiani), il processo di invecchiamento dalla condizione del classico adulto maturo alla fase di vita successiva durerebbe mediamente 13 anni, con l’inizio della transizione che avverrebbe tra i 50 e i 60 anni. Le “tappe” importanti del processo di invecchiamento sarebbero segnate, secondo questo studio basato su dati del progetto europeo Share, dai seguenti eventi che implicano un cambiamento di ruolo o di status: l’uscita dal mercato del lavoro, l’uscita dell’ultimo figlio dalla casa d’origine, la nascita del primo nipote, la perdita del coniuge e il peggioramento delle condizioni di salute. Addirittura, Vezzuto riconosce durate del processo di invecchiamento diverse da Paese a Paese: ad esempio, “breve” quello degli Austriaci o dei Polacchi, “intermedio” quello dei Francesi, “medio-lungo” quello dei Tedeschi, “posticipato” quello degli abitanti della Svizzera, della Svezia e dei Paesi Bassi. Anche per noi Italiani il processo d’invecchiamento sarebbe “posticipato”, soprattutto perché lo si intraprenderebbe tardi.

Ora, a parte le differenze Paese, credo che effettivamente anche nell’esperienza individuale siano per molti riconoscibili gli eventi che lo studio identifica come “tappe” del processo di transizione e condivisibile da molti che esso sia un percorso prolungato nel tempo.   Sul piano familiare la varietà degli eventi “marcatori” è ampia, anche se non segue un calendario standard di età: a 60 anni può succederti di vedere i figli uscire di casa, ma anche di averli già autonomi da dieci anni o di tenerli sotto il tetto di casa per i dieci anni successivi; può succedere che diventi neo-nonno, ma anche neo-padre; puoi iniziare un periodo di riscoperta della coppia con il partner di una vita o magari invece ti può capitare un nuovo amore con un coetaneo. Nella sfera lavorativa, per qualcuno l’evento “marcatore” è il classico giorno del pensionamento, ma per qualcun altro è un improvviso licenziamento o un’imprevista riduzione di responsabilità. E’ forse però soprattutto il fronte fisico quello a cui siamo più sensibili e che di più ci fa notare che gli anni passano.  Se da una parte è sicuro che agli acciacchi non si sottrae nessuno e che la roulette delle malattie serie è sempre all’opera, è altrettanto certo che la medicina oggi consente a tutti maggiore ottimismo, che finalmente l’attenzione alla prevenzione si sta facendo strada diffusamente e che si sta imponendo una maggiore propensione al movimento fisico e all’alimentazione sana.  Così, un’importante conseguenza è che il declino fisico, che quando si viveva meno era normalmente concentrato in pochi anni, oggi si diluisce su decenni, pur con una resistenza altamente variabile da persona a persona.

In questo quadro di “invecchiamento lento, posticipato e prolungato” è però probabile che sperimenteremo dissonanze forti, anche a livello fisico, tra il mantenimento da un parte di condizioni “giovanili” grazie alla medicina rigenerativa (ad esempio con le “riparazioni” di cuore e fegato grazie alle cellule staminali) e invece il peggioramento dall’altra parte sul fronte delle malattie neurodegenerative, viste le maggiori difficoltà che la scienza medica sta affrontando in questo campo. Allo stesso modo, sperimenteremo disorientamenti tra un invecchiamento fisico molto lento e cambiamenti invece talvolta repentini di ruoli sociali e familiari.

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Le bucce di banana del giovane pensionato

Questo articolo non serve a:

      i pensionati d’oro (quelli d’oro davvero)

      i tanti che popolano i luoghi di lavoro, che non ne possono più di quel che fanno e che ancora rovistano tra le pieghe della riforma Fornero per trovare una falla che consenta loro di realizzare il sogno di andare in pensione presto, ma che tanto in pensione ci andranno solo verso i 70 anni

      i baby pensionati e le baby pensionate che ormai hanno superato da tempo il problema

      i cinquantenni che dal lavoro sono stati espulsi e hanno problemi più urgenti da risolvere.

Si rivolge invece ai tardo-cinquantenni e soprattutto ai tantissimi giovani sessantenni che l’assegno dell’Inps lo ricevono già e si augurano di vivere altri trent’anni, oppure ai pochi loro coetanei che hanno fatto la scelta di ritirarsi dal lavoro retribuito prima del termine pensionistico standard per dedicarsi ad altro.

Vivessero in America, costoro verrebbero chiamati gli “early retired”, quelli appunto che via dal lavoro con una fonte di sostentamento ci sono andati abbastanza presto rispetto agli standard attuali e che hanno davanti a sé, auspicabilmente, ancora un lungo tratto di vita.

Fare l’”early retired” è la condizione più invidiata da quelli obbligati al “late retirement”, ma trova sulla propria strada molte bucce di banana, soprattutto sul versante delle proprie finanze. Ecco alcuni degli errori che, secondo lo statunitense Joe Udo da me liberamente interpretato, l’”early retired” farebbe bene ad evitare. Sono errori (e relativi suggerimenti) d’oltre Oceano, ma che in larga misura vanno bene anche dalle nostre parti.

Spendere troppo, troppo presto

Se a 60 anni gli uomini italiani possono sperare di vivere ancora 21 anni e le donne ancora 26, spendere troppo, subito dopo avere smesso di portare a casa un reddito da lavoro, può essere pericoloso; diciamo che aumenta di molto le possibilità che ci si trovi senza risparmi per gli anni più anziani. Le mie spese di oggi sono coperte completamente da una pensione o devo intaccare il risparmio? E se lo intacco, di quanto è prudente farlo ? Secondo Udo, un prelievo del 4% all’anno dal proprio risparmio può essere ragionevole per chi in pensione ci va tardi, per un “early retired” invece meglio non intaccare il patrimonio di più del 3% nei primi anni.

Dare un taglio netto a qualunque forma di lavoro retribuito

Uno dei modi per non intaccare troppo il risparmio è lavorare ancora un po’ anche se si riceve già la pensione; stesso discorso per chi si è deciso a mollare prima del tempo il lavoro tradizionale full time. In questi casi é un errore non prendere in considerazione il lavoro part time, gli incarichi temporanei, qualche progetto. Tra l’altro, non escludere a priori qualche forma di attività lavorativa parziale può far bene non solo al portafoglio, ma anche al proprio stato d’animo.

Investire in modo troppo conservativo o rinunciare completamente ad investire

I consulenti finanziari sanno che quando ci si avvicina alla pensione, la tolleranza al rischio diminuisce.  Forse nella finanza di oggi è segno di saggezza, ma anche i soldi sotto al materasso non sono indenni da rischi. D’accordo che non bisogna spendere troppo subito, ma l’acquisto di qualche bene durevole può essere utile: la cucina e il salotto comprati trent’anni fa dureranno anche per i prossimi trenta ?

Non considerare i costi medici futuri

Gira una stima di una grossa organizzazione finanziaria, la Fidelity Investments, secondo la quale una coppia di 65enni americani che si ritira a quest’età avrà bisogno di 240.000 dollari (un po’ più di 180.000 euro ai cambi di oggi) per coprire le proprie spese mediche future. E questo senza considerare i casi eccezionali di lunga vita, cioè di quelli che riescono a vivere oltre i novanta o i cento anni. La decente condizione fisica di cui gode oggi un sessantenne può fargli pensare che sarà così per sempre: è un errore, purtroppo oggi la buona salute sta ancora correndo un po’ più lentamente della longevità.

Rimanere passivi

I sogni d’ozio, di spiagge assolate e di mare caraibico, tipiche di quando non se ne può più di stare in ufficio vanno bene appunto solo in quell’occasione. I giovani pensionati hanno bisogno di dare un senso al loro tempo. Dopo il periodo di lavoro pieno, il tempo liberato senza impegni può portare a insoddisfazione e persino a depressione. Bisogna pensarci bene prima di staccare completamente la spina da ogni attività.

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Il Giappone è vicino

Lunedì scorso in Giappone era giornata di festa nazionale. Si festeggiava, come ogni anno dal 1996, il Keiro no Hi, la giornata dedicata al Rispetto per la Terza Età. In occasione di questa festività i mass media propongono interviste agli anziani del Paese, Borse e banche sono chiuse e il giorno precedente di prassi il Governo rilascia i dati ufficiali sulla terza età in Giappone.

Dati che quest’anno hanno battuto tutti i record dal 1950, cioè da quando si fa questo tipo di censimento.  In Italia, si sa, viviamo a lungo, più degli altri Paesi occidentali, ma nel mondo la classifica della longevità la vince il Giappone. Al 15 settembre del 2013 i giapponesi di età uguale o superiore ai 65 anni hanno raggiunto quota 31,86 milioni, 1,12 milioni in più rispetto allo scorso anno. Rispetto alla popolazione totale, gli over 65 sono il 25%, mentre gli ultrasettantenni sono 23,17 milioni e rappresentano il 18,2% dei giapponesi. Cinquantaquattromilatrecentonovantasette è l’incredibile numero di ultracentenari, capeggiati dalla signora Misao Okawa di Osaka, che è nata alla fine dell’800 e che oggi ha 115 anni.  Il rispetto orientale per gli anziani è proverbiale e la festa del terzo lunedì di settembre  lo conferma, ma attenzione che questo si sposa con dei dati altrettanto impressionanti, soprattutto per noi italiani, sul fronte della partecipazione al lavoro. I giapponesi over65 che risultano ancora occupati sono 5,95 milioni e il numero è in crescita (240.000 persone in più rispetto all’anno precedente). Insomma, il 27,9% delle persone sopra i 65 ancora lavora e quasi la metà (il 46,9%) degli uomini tra i 65 e i 69 anni continua ad avere un’occupazione lavorativa.  

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