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Quando un genitore si ammala di Alzheimer

Sono sempre più numerosi i cinquantenni e i sessantenni con i genitori malati di Alzheimer. Con piacere ospito questo articolo di Patrizia Belleri, psicologa e psicoterapeuta, che da tempo partecipa a questo blog e che qui descrive gli stati d’animo di chi ha un genitore con questa malattia e cosa si può fare per affrontare la situazione. Enrico

Maria ha sessant’anni. I figli sono adulti, ma non ancora del tutto autonomi, la pensione è lontana, tuttavia, la buona salute e un rapporto di coppia sereno le permettono di guardare alla vita con ottimismo. Può finalmente dedicare del tempo a sé, quel tempo che le sembrava così scarso fino a pochi anni fa. Quando la madre manifesta i primi sintomi della malattia di Alzheimer e poi il decadimento progressivo, la vita di Maria prende una direzione imprevista.

Stretta tra due generazioni che hanno bisogno di lei, Maria si sente smarrita. Aiutare i figli le sembrava normale e non lo avvertiva come un peso, ma i bisogni della madre la schiacciano e si sente impreparata.

Il rapporto  con la madre  era stato conflittuale e oggi il senso di colpa la assale ogni volta che non riesce a comunicare adeguatamente con lei, che si lascia prendere dal nervosismo, o pensa di non essere  efficace nell’assisterla.

Come descrivere il dolore, lo smarrimento, l’impotenza di chi vive situazioni come questa?

Il 21 settembre scorso è stata celebrata la giornata mondiale dell’Alzheimer.  Questa malattia, dall’esordio subdolo e dalle manifestazioni drammatiche, è in costante aumento perché le persone vivono più a lungo; i Senior – figli di una generazione che ha avuto figli in età giovanile –  affrontano dunque la malattia dei genitori quando essi stessi iniziano a guardare alla propria vecchiaia.

La demenza di un genitore richiede di affrontare compiti difficili e delicati, spesso senza averne le capacità né la vocazione, e, soprattutto, coglie impreparati.  L’esordio della malattia di Alzheimer giunge inaspettato, e talvolta la prima reazione è il rifiuto. Si formulano ipotesi alternative: che l’anziano sia depresso, o che cerchi di attirare l’attenzione su di sé, che non si sforzi abbastanza a ricordare e a ragionare.

Una volta confermata la diagnosi, poi, ci si scopre inadeguati a un tipo di assistenza difficile anche per chi la svolge per professione.   Oggi si parla della sindrome del burnout, un malessere psico-fisico che colpisce i cosiddetti caregiver, coloro che svolgono le professioni di aiuto. Ma chi caregiver si trova ad esserlo per necessità, e con una persona cara, è doppiamente a rischio: per l’impreparazione e per il  coinvolgimento emotivo che la vicinanza affettiva comporta.

Che fare?  

Bando ai sensi di colpa: aggiungono dolore al dolore.  Se abbiamo risposto in maniera sgarbata al nostro genitore, ammettiamo che il carico di tensione è elevatissimo e un cedimento fa parte del gioco.   Ci si può sentire in colpa per provare sentimenti di imbarazzo. Non c’è nulla di cui vergognarsi se il nostro genitore ha comportamenti bizzarri in pubblico: le persone sensibili capiranno. È invece importante mantenere i contatti sociali e, per quanto possibile, far sì che anche l’ammalato non si isoli.

È comprensibile sentirsi in colpa anche quando si giunge alla decisione che nessun figlio vorrebbe prendere: il ricovero. Molto spesso si tratta dell’unica scelta praticabile, dopo aver sperimentato tutte le possibili alternative. Anche in questo caso, è più utile cercare di assolversi e dedicare le proprie energie a sostenere il genitore, magari con visite più frequenti.

Farsi aiutare. Da soli è quasi impossibile sopportare un carico tanto elevato. L’aiuto qualificato può rivelarsi utilissimo. Ci sono gruppi di mutuo aiuto, coordinati da esperti che insegnano a gestire le proprie emozioni, ma soprattutto a comunicare correttamente con l’ammalato, a stimolarne le capacità residue, a migliorar la qualità delle vita di chi assiste e dell’assistito.

E’ anche importante parlare con le persone di cui ci fidiamo: possiamo trovare nell’altro comprensione, o esaminare un modo diverso di vedere la situazione e magari scoprire che anche altri vivono un problema analogo. Il confronto con l’esterno favorisce il distacco emotivo e può essere costruttivo e consolatorio.

 Trovare del tempo per sé. Il contatto continuo con un ammalato di Alzheimer può provocare molta angoscia e nel contempo impoverire le abilità cognitive di chi lo assiste. Bisogna imparare a chiedere, anche quando non si è abituati a farlo, e trovare dei momenti per la propria realizzazione personale: per  prendere le distanze fisiche ed emotive e, soprattutto, per mantenere la mente sempre attiva e allenata.

 Per i sessantenni di oggi c’è la speranza che buone pratiche comportamentali –  prime fra tutte la stimolazione intellettiva – e i progressi della ricerca scientifica  allontanino dal loro futuro lo spettro della demenza.   Patrizia Belleri”        In foto: R. Magritte, “Il doppio segreto”, 1927

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